cucina medievale

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    A TAVOLA NEL MEDIOEVO


    Il sale:
    se il sapore dolce denota, e a lungo denoterà, la cucina d’élite, quella del popolo sa soprattutto di sale.
    I cibi conservati, che si mantengono nel tempo e garantiscono un minimo di sicurezza alimentare lungo il corso dell’anno, fanno parte del sistema di scambi che rifornisce di prelibatezze la tavola signorile ma soprattutto costituiscono la base della gastronomia “ordinaria”, della produzione e consumo domestico di alimenti.
    È questa fin dal Medioevo una delle principali distinzioni di immagine alimentare fra il ricco ed il povero , il signore e il contadino: il primo mangia cibi freschi il secondo no.
    Carni,pesci,formaggi,verdure arrivano sulla mensa contadina con un monotono sapore di sale.
    La grande sete che ne deriva contribuisce certo a spiegarle eccessive quantità di vino che hanno accompagnato per secoli il consumo di cibo.
    Il formaggio:
    fino alla fine del Medioevo, il latte animale per eccellenza fu quello di pecora o di capra.
    L’allevamento bovino serviva a procurare forza lavoro (traino di carri ed aratri) e secondariamente carne; solo occasionalmente latte.
    Le valutazioni nutrizionali erano specchio fedele di tali consuetudini: “il latte, scrive Platina, ha le stesse proprietà dell’animale da cui viene munto: si reputa ottimo quello di capra. Per secondo viene quello di pecora, per terzo quello di mucca”.
    Peraltro, il latte non si beveva praticamente mai. Il modo più normale di consumarlo(e, allo stesso tempo, conservarlo)era sotto forma di formaggio.
    A dire il vero, nei confronti del formaggio la cultura medica nutri a lungo forti perplessità.
    Per di più il formaggio fu associato per molto tempo alla gastronomia povera,al mondo dei contadini e dei pastori. Difficilmente esso manca nei menù “popolari”, di quelli raccontati in letteratura o documentari nei conti di un’osteria.
    Tuttavia fin dal Medioevo, si avviò un percorso di “nobilitazione”legato anche all’immagine del formaggio come “cibo di magro”, sostitutivo della carne nei giorni di astinenza infrasettimanale e di vigilia e poi, dal XIV-XV secolo,anche in quaresima.
    Tutto questo se da un lato confermò lo statuto del formaggio come alimento “povero” sostitutivo della carne, ritenuto ben altrimenti prestigioso e desiderabile, dall’altro assunse un ruolo importante nel sistema alimentare.
    Pantaleone da Confienza nella seconda metà del quattrocento nel “Summa Lacticiniorum” distingue vari tipi di formaggio tra cui “il formaggio fiorentino”,detto marzolino, il formaggio di Piacenza o parmigiano e delle località circonvicine, formaggi della morra che sono formaggi piccoli, il formaggio della Val di Locana e di Ceresole, il formaggio della Val di Lanzo e delle valli circonvicine, il formaggio della Val di Susa e del Moncenisio, le robiole delle Langhe e molti altri.
    Il Platina nomina il parmigiano delle regioni cisalpine, che si può chiamare anche maggengo dal mese di maggio.
    Le spezie:
    l’uso abbondante delle spezie era una pratica diffusa da tempo nelle cucine europea (quella ricca): già nei secoli IX-X è attestato un considerevole flusso di spezie sui mercati occidentali d’Italia e di Francia e i documenti rivelano un interesse crescente per prodotti come lo zenzero , la cannella, i chiodi di garofano.
    Le spezie appaiono inizialmente nei trattati di dietetica, con un impiego specificamente medicinale; dalla sfera medicinale raggiungono poi l’ambito della gastronomia.
    Quando alla fine del XI secolo le spedizioni e gli insediamenti dei crociati portano gli occidentali ad un più ravvicinato contatto con l’Oriente, l’afflusso delle spezie diventa più massiccio e trova fertile terreno di diffusione in un Europa già orientata verso quei profumi e quei sapori. Sarà la fortuna dei mercanti veneziani, rimasti a lungo i principali protagonisti di questo commercio.


    Tratto dalla rivista Ars Historiae, anno 2006

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    LE UOVA E LE SALSE NEL MEDIOEVO

    Se pensiamo al diffuso allevamento domestico di pollame nel XIV secolo, possiamo immaginare che la produzione di uova doveva essere abbastanza rilevante in tutte le aziende agricole, grandi o piccole o anche solo a conduzione famigliare. Ad ogni modo le uova, pur essendo considerato dai nobili un alimento semplice e “plebeo”, in definitiva erano consumate da tutti i ceti sociali ed il loro impiego variava a seconda delle stagioni e delle situazioni (sontuosi banchetti oppure il desinare quotidiano).
    Le uova sono generalmente ignorate nella regolamentazione statuaria del Trecento (non se ne fa menzione negli statuti cittadini), salvo qualche rara eccezione, in quanto venivano considerate un sottoprodotto alimentare, secondario rispetto ad altri alimenti quali la carne ed il pesce.
    In effetti le uova dovevano entrare con frequenza nella dieta quotidiana di tutti i livelli sociali, se si deve prestare fede ai trattati culinari del tempo ed alle numerose ricette in cui le uova rappresentano un elemento base indispensabile. Era un rapporto nutritivo di primaria importanza in quanto le uova sono ricche di sali minerali, protidi e vitamine specialmente la vitamina A: potevano così costituire un alimento completo, facilmente digeribile, specialmente se consumato “sorbilia vel mollia” (direttamente dal guscio), consigliabili soprattutto per le donne gravide e alle balie ed in ogni caso per chi avesse problemi di digestione. Dalle leggi religiose e civili l’uso delle uova , in quanto prodotti di animali, era severamente vietato nei giorni di astinenza dalle carni e durante il periodo della Quaresima. Questo divieto ecclesiastico che perdurò per tutto il XIV e XV secolo non era solo tipico del nord d’Italia ma anche di altri stati italiani: si narra che verso la metà del ‘300 un vecchio mercante toscano, tradito e beffeggiato dalla giovane moglie che lo aveva lasciato, durante il processo di separazione non trovò di meglio che accusare la giovane donna di essere una “mangiacarne et uova del dì de quaresima”, quindi una ignobile peccatrice.

    RICETTE CON LE UOVA

    1) Metti le ova fresche ne la cenere calda voltandole spesso con diligentia, che da ognie parte sentano il caldo de lo foco equalmente. Et quando sudano ben forte, cavale che son cotte.
    2) Uova affogate: fate bollir l’acqua e rompeteci dentro le ova, quando l’albume si sarà rapreso, scolatele con una paletta, impiattatele e cospargetele con acqua di rose mista a zucchero, spezie dolci(cannella), e succo d’arancia e di limone.
    3) Ova ripiene in salsa: fai rassodar le uova in acqua, sgusciale, tagliale a metà e leva i tuorli, facendo attenzione a non rompere gli albumi. piglia i tuorli e pestali in un mortaio con un poco di uva passa, formaggio ed erbe aromatiche tritate finemente. Riempir la cavità degli albumi sodi e poi friggere tutto in abbondante oglio. Prepara la salsa pestando altri tuorli bolliti con uva passa, stemperare con aceto o vin cotto, aggiungi un pizzico di zenzero, chiodi di garofano e buona quantità di cannella, far bollire e poi cospargere le ova fritte.
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    Cucinare nel Medioevo (parte prima)

    a cura di Anna Fabbri

    L'abbiamo incontrata durante alcune delle più importanti rievocazioni storiche italiane e ci ha conquistato con la sua simpatia e le sue interessantissime ricette ed aneddoti culinari. Finalmente possiamo pubblicare on-line sul nostro sito una parte del "PICCOLO MANUALE DI CUCINA DA CAMPO" che Anna ha scritto non solo per tutti gli amanti della rievocazione storica medioevale, ma anche per tutti coloro che vorrebbero conoscere un po' meglio ricette ormai perdute e riscoprire antichi sapori.

    (Fabio Sansoni)

    tratto dal PICCOLO MANUALE DI CUCINA DA CAMPO di Anna Fabbri

    Ho pensato a questo piccolo manuale per condividere la mia esperienza di cucina
    durante gli eventi.
    Spero che i consigli che seguono possano esservi d’aiuto.
    Alcuni suggerimenti per molti potranno essere banali ma ciò che per alcuni è scontato per altri non lo è.

    Conservazione degli alimenti.

    Il metodo migliore per conservare gli alimenti è il “medieval frigorifero”, ossia un
    contenitore isotermico per alimenti. Si trova nei negozi che trattano forniture
    alberghiere.
    Generalmente è in polistirolo e mantiene la temperatura per molte ore.
    Il contenitore deve venire occultato in una cassa di legno di foggia adatta al periodo che
    si sta ricostruendo.
    Per mantenere il fresco a mio parere il metodo migliore è quello di congelare delle
    bottiglie d’acqua (meglio quelle da 2 litri), possibilmente qualche giorno prima
    dell’evento. Se il ghiaccio è vecchio ha una maggiore durata.
    Trovo che le bottiglie d’acqua gelata oltre ad essere più efficaci dei panetti di ghiaccio
    finto (non conosco il nome tecnico) hanno il vantaggio di fornire acqua fresca man
    mano che disgelano (e quando ci sono certe temperature è una bella fortuna!).
    Se la carne non viene fornita dagli organizzatori dell’evento e non c’è la possibilità di
    andare a fare la spesa quotidianamente, consiglio di portarsi della carne congelata per
    prolungarne la durata soprattutto in caso di elevate temperature.
    Portare dell’alluminio o della pellicola ad uso alimentare, sono utili per coprire
    eventuali avanzi da riporre nel contenitore termico.
    Inutile ricordare che le intossicazioni alimentari sono sempre in agguato e,
    considerando la scarsità dei servizi igienici durante gli eventi, è meglio cercare di non
    farsi venire una dissenteria.

    Attrezzature

    Utilizzare pentole e padelle di ferro o rame badando che abbiano una forma
    storicamente accettabile.
    Assolutamente da evitare alluminio, acciaio, teflon e materiali antiaderenti.
    Per quando riguarda il coccio è molto difficile trovarne di storicamente credibile, il
    coccio che si trova in tutti i supermercati e negozi di casalinghi è moderno e inadatto.


    Varie

    • Brodo: se decidete di fare una zuppa, utilizzando un buon brodo il risultato sarà
    sicuramente migliore rispetto all’uso del dado (inventato da Maggi nel 1880).
    Una soluzione pratica è quella di preparare il brodo in anticipo e congelarlo in
    bottiglie di plastica.
    • Fagioli: fino a dopo la scoperta dell’America l’unico tipo esistente era quello
    “dall’occhio”. Attualmente si trovano in commercio solo essiccati. Quindi se
    volete cucinarli durante l’evento conviene lessarli a casa.
    Per essere credibili si deve porre la massima attenzione non solo alle armi e armature,
    tecniche di combattimento e abbigliamento.
    Alcuni particolari, a volte sottovalutati, possono rendere poco credibile il lavoro del
    rievocatore.
    Si deve perciò porre la massima attenzione a cosa e come si cucina.
    Indossare un abito filologico al 100% e intanto cucinare dei fagioli borlotti o bianchi di
    Spagna, peperoni e zucchine alla griglia non è peggiore che tenere in vista bottiglie di
    plastica o bibite in lattina.
    Pertanto evitare i cibi che non erano presenti o non utilizzati nell’alimentazione umana
    nel periodo storico oggetto dell’evento.



    ALCUNE NOTIZIE SULLA PASTA


    Già nel I° secolo a.c. Cicerone ed Orazio erano ghiotti di lagana, dal termine greco
    laganon che indicava una schiacciata di farina tagliata a strisce, poi cotte in acqua o
    fritte, cui solitamente si fanno risalire le attuali lasagne.
    La ricetta di un timballo di lagane é nel “De re coquinaria” di Apicio, testo collocato
    intorno al I° secolo d.c.. Un’altre documentazione importante è emersa da una delle più
    grandi e famose tombe etrusche, la “Tomba dei rilievi”di Cerveteri che ha le pareti
    decorate da affreschi raffiguranti personaggi al lavoro in un ambiente di cucina dove
    appesi al muro sono perfettamente riconoscibili spianatoia, mattarello e rotella dentata,
    cioè gli arnesi necessari per impastare, stendere e tagliare la pasta.
    Gli “atriya” erano la forma più antica corrispondente ai maccheroni lunghi o spaghetti
    che venivano tagliati allo spessore di pochi millimetri da una sfoglia sottilissima,
    riportati sotto il nome di trii dai primi ricettari italiani.
    I“fideos” (da cui è derivato il termine “fedelini” o “fidelini”) di forma cilindrica sottile
    ed allungata ottenuta rotolando piccole porzioni di pasta sotto il palmo della mano,
    erano simili a piccoli vermi, i futuri vermicelli, ma molto più corti di quelli attuali

    Lo scrittore-geografo arabo Al-Idrisi nel suo libro “Il diletto di chi è amante delle
    peregrinazioni attraverso il mondo”, datato 1154, descrisse tutti i luoghi dell’epoca
    conosciuti, indicando le cose di rilievo e le usanze peculiari riscontrate in ciascuna città,
    senza trascurare i cibi. Egli riferisce che a Travia, in Sicilia, si fabbricavano vermicelli
    in quantità tale da rifornire oltre i paesi della Calabria anche quelli dei territori
    musulmani e cristiani. Il termine arabo usato da Al-Idrisi per indicare i vermicelli è
    “atriya”, ed in qualche località del palermitano ancora oggi si usa fare a mano dei
    vermicelli chiamati “triya” perpetuando l’antica voce araba, tutt’ora in uso nei vari
    ricettari di cucina siciliana. Del resto intorno all’anno mille gli arabi si trovavano in
    Sicilia in pianta stabile, sicché vi fu una naturale mescolanza tra arabi e siciliani con
    conseguente reciproca influenza tra le usanze dei due popoli.
    “Theatrum Sanitatis”, codice ricco di miniature che illustrano le varie produzioni
    alimentari, come si fa il vino, come si fa il formaggio, o il pane, o l’olio e cosi via. Tra
    l’altro è illustrata in modo inequivocabile la lavorazione manuale della pasta, prima
    impastata, poi stesa in sfoglie sottili, tagliata in lunghe strisce ed infine appesa ad
    asciugare su tralicci, proprio come molti secoli dopo faranno i maccheronari di
    Gragnano.
    Dell’opera esistono almeno cinque copie manoscritte, una intitolata “Theatrum
    Sanitatis” e le altre “Tacuinum Sanitatis”, risalenti alla fine del XIV secolo, derivate dal
    libro di un famoso medico arabo di Bagdad, Abul Hasan Al Muchar Ibn Botlan, morto
    ad Antiochia verso la metà dell’XI secolo, libro che fu tradotto in latino da Ferraguto
    nel XIII secolo e secondo le affermazioni di alcuni studiosi, anche il più antico
    ricettario di cucina di area italiana, il “Liber de coquina”, sarebbe la traduzione latina
    di un testo arabo, eseguita per volere di Carlo II d’Angiò. In esso vi è la più antica
    ricetta di quei vermicelli primordiali, “De tria ianuensis” (della tria genovese), conditi
    con cipolle soffritte in olio e con formaggio grattugiato, per essere serviti insieme a
    uova, a capponi, o a qualunque altra carne, dunque con funzione di contorno. Ancora
    tria nel “Libro della cocina” dell’anonimo toscano, primo ricettario scritto in volgare
    italiano alla fine del XIV secolo, questa volta cotte nel latte di mandorle, inserite tra le
    pietanze adatte a malati ed infermi.
    Da queste testimonianze, si può affermare che le paste alimentari esistevano nei paesi
    del mediterraneo occidentale già molto prima del 1292, anno in cui Marco Polo tornò
    dalla Cina.
    Affermazione suffragata anche da un atto notarile del 1279 in cui il notaio genovese
    Ugolino Scarpa menzionava una “bariscella plena de maccaronis” nell’inventario dei
    beni lasciati in eredità dal defunto milite Ponzio Bastone.

    Sin dai più antichi ricettari è descritta la tecnica, rimasta invariata per molti secoli, per
    confezionare a mano i maccheroni. Fondamentali sono i diversi esemplari manoscritti
    del “Libro de arte coquinaria” importante opera di cucina scritta da Maestro Martino
    da Como (metà del quattrocento), cuoco del patriarca di Aquileia residente a Roma, che
    contiene ben quattro ricette di pasta: “distempera la pasta e filala sottile rompendola a
    pezoli piccini con le dita a modo di vermicelli, e ponelia seccare al sole, e dureranno
    doi o tre anni…”. Molto differenti, perché fatti con farina, uova e pane bagnato, i
    maccheroni descritti nel “Libro Novo” di Cristoforo da Messisbugo (1549), grande
    scalco della corte estense, e nella monumentale “Opera” di Bartolomeo Scappi (1570),
    cuoco segreto alla corte pontificia di ben due papi, Paolo II e Pio V.
    La presenza costante di vermicelli e maccheroni tra le ricette degli antichi testi di
    cucina dimostra come sin dal medioevo la pasta era in uso nella cucina aristocratica per
    essere servita alle mense dei nobili e dei ricchi di tutta Italia, mentre rappresentava un
    miraggio per il popolo minuto che per tutta la vita sognava maccheroni rotolanti su
    montagne di parmigiano nel mitico Paese di Bengodi descritto da Boccaccio. Nel
    Decamerone, fa raccontare da Maso del Saggio a Calandrino che nel paese di Bengodi
    "eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan
    genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli...".
    Nonostante nel seicento i maccheroni fossero ormai molto diffusi la plebe doveva
    accontentarsi di mangiarli solo in sogno; per lei il piatto di pasta rappresentò ancora per
    molto tempo il miraggio dei giorni di festa, la ghiottoneria con cui abbuffarsi nelle
    grandi occasioni. E’ la realtà trasmessa dai documenti ufficiali, da relazioni medico
    scientifiche sull’alimentazione del popolo minuto e dai diari dei viaggiatori stranieri a
    Napoli. I maccheroni erano confezionati a mano ed il loro costo era troppo alto per le
    scarse risorse dei napoletani. Nei “Giornali di Napoli” di Antonio Bulifon, alla data del
    13 gennaio 1617 è annotato che il duca di Ossuta, vicerè del regno, con la consorte ed
    altri cortigiani si recò a Poggioreale dove aveva fatto preparare un festino reale e “fece
    accomodare molte tavole al popolo minuto, che erano più di diecimila persone… di cui
    si prese S.E. gran diletto in vederla scialacquare e mangiare i maccheroni alla
    napoletana con le mani a branca… stando ella in disparte in un’altra mensa.”

    Se il vicerè li offriva in un festino reale trattavasi di pietanza speciale, prelibata,
    intensamente desiderata e non di un cibo usuale per il popolo.
    Finalmente nel settecento, grazie alla comparsa delle prime macchine per fabbricare
    maccheroni, il prezzo divenne più accessibile ed i maccheroni, serviti da secoli alle
    mense aristocratiche, arrivarono nei vicoli di Napoli per essere preparati e venduti a
    pochi soldi insieme agli altri cibi cotti e crudi con cui la plebe placava i morsi della
    fame e liquidava rapidamente il rito del pasto. Agli angoli delle strade ad un certo
    momento trovò posto anche la grossa caldaia del maccheronaio, affiancata dal piatto di
    terraglia con la bianca piramide di formaggio grattugiato solcata da nere righe di pepe,
    unico condimento dei maccheroni plebei fino alla grande affermazione del pomodoro.
    Anche se i maccheroni esistevano già da alcuni secoli, tra la fine dei seicento ed i primi
    decenni del settecento si affermarono nuove regole che dettero vita ad un cibo del tutto
    diverso: innanzitutto i maccheroni diventarono lunghi, dovevano poi essere cotti in
    acqua abbondante, non dovevano essere sfatti, costituivano un piatto autonomo, non più
    contorno o accompagnamento di altre pietanze, ed infine erano poco o per niente
    conditi. In questa nuova veste, con ruolo di protagonisti, diventarono nei secoli
    successivi il cibo abituale del ceto medio napoletano. Il popolo preferiva i maccheroni
    “vierdi vierdi” cioè duri al pari dei frutti ancora acerbi, in antitesi con quelli stracotti
    preparati per le mense dei nobili. Infatti, sia nelle ricette più antiche sia nei testi
    ottocenteschi, la pasta era bollita a lungo in brodi grassi e densi, e poi ancora condita
    con burro, formaggio, zucchero e cannella ed altre spezie, utilizzata per costruire
    sontuosi timballi, formare ricchi ripieni di pollame o divenire il raffinato contorno di
    monumentali arrosti.


    Ancora alla fine del seicento nello “Scalco alla moderna” di Antonio Latini, che fu al
    servizio di principi e porporati della capitale partenopea, i maccheroni hanno quasi
    sempre il ruolo di ricco contorno a piatti di pollame, selvaggina o altre carni, o di
    sostanziosa farcia mescolati ad altri rari e costosi ingredienti.
    Lunga, complessa e variegata la storia dei condimenti, che nelle varie epoche hanno
    insaporito questo cibo, mai uguale, che si trasforma a seconda dell’intingolo che lo
    accompagna. Non si tratta di una storia unica, ma di più storie parallele derivanti dai
    tempi, dai luoghi e dalle categorie di consumatori, sicché gli attuali modi di preparare e
    condire le paste alimentari derivano da situazioni storiche e sociali molto differenti e
    lontane tra loro.
    Negli antichi ricettari scritti tra il XV ed il XVIII secolo ad opera di cuochi o
    maggiordomi di case reali e principesche, è descritta la cucina dei ricchi
    abbondantemente profusa di spezie e zucchero, costosissime merci di lusso sparse a
    profusione su tutte le pietanze come status symbol per ostentare grande potenza
    economica ed elevata posizione sociale dell’anfitrione. Non fa eccezione la pasta che,
    era cotta per ore in grassi brodi di carne o pollame, condita pio con burro e formaggio
    grattugiato ed immancabilmente spolverizzata di zucchero, cannella ed altre spezie. Nei
    giorni di magro, molto numerosi se si pensa che erano oltre 180 in un anno, i
    sostanziosi brodi erano sostituiti da acqua e burro o dal latte se non addirittura dal latte
    di mandorle.
    Spesso i maccheroni, specie le tagliatelle, fungevano da scenografia raffinata ai
    monumentali arrosti o agli esclusivi piatti di caccia, il sugo della carne grondava sul
    letto di pasta che acquistava un sapore squisito. E’ probabile che così sia nata l’idea di
    condire la pasta col sugo di lepre e simili.
    Moltissimi gli ostacoli e le difficoltà che il pomodoro dovette superare per affermarsi
    ed entrare nell’alimentazione quotidiana da quando, nei primi del cinquecento, giunse
    in Europa portato dai conquistatori spagnoli dal Nuovo Mondo.
    Coltivato inizialmente solo come pianta ornamentale o medicinale il suo uso
    commestibile fu del tutto sporadico ed occasionale a causa del diffuso timore popolare
    contro questa pianta accomunata ad altre solonacee velenose come la belladonna e la
    mandragora. Il suo frutto misterioso era avvolto da un alone di magia che per un verso
    gli attribuiva proprietà afrodisiache ma per l’altro ne denunciava la sospetta tossicità.
    Nelle sue prime apparizioni sulle tavole italiane il pomodoro non giunse sotto forma di
    saporite salsa ma come elemento decorativo di ricercati centrotavola sulle tavole dei
    potenti. Diffidenza e pregiudizi persistettero a lungo tanto che alla fine del settecento
    erano ancora molti i paesi che lo consideravano velenoso.
    Antesignane furono la Spagna ed il Regno di Napoli dove il pomodoro era entrato
    nell’uso quotidiano già nel seicento.
    Tanto è che il merito di aver scritto la prima ricetta di pomodoro va a Antonimo Latini,
    grande cuoco attivo a Napoli nella seconda metà del seicento. La bellezza di questa
    bacca rossa, allegra e polposa parve la miglior garanzia contro qualunque superstizione,
    e proprio a Napoli ne venne fatto l’uso più appropriato e congeniale, mettendolo sulla
    pasta. Nell’ottocento il miracolo è compiuto, i maccheroni si colorano di rosso
    formando con il pomodoro un binomio ideale che non si sarebbe sciolto mai più.
    All’inizio i pomodori erano cotti al naturale, semplicemente con un po’ di sale senza
    grassi né aromi; solo in un secondo momento il sugo fu arricchito da olio d’oliva, aglio,
    cipolla, basilico, prezzemolo, peperoncino e via via tante altre cose per comporre una
    vera e propria salsa.
    La prima ricetta di un rudimentale ragù apparve ne “La cucina casereccia” (1807),
    mentre solo nel 1837 verrà descritta da Ippolito Cavalcanti una salsa di pomodoro
    semplice per condire i famosi vermicelli.
    Iniziava così il trionfale cammino dei maccheroni al pomodoro lungo le strade di tutto
    il mondo.

    Da queste notizie si evince che la pasta:

    • non era cibo destinato al popolo minuto;
    • non rappresentava il piatto principale come accade oggi;
    · non veniva condita con sughi e ragù.

    Pertanto, se si decide di cucinare della pasta durante un evento di rievocazione è doveroso:

    • spiegare al pubblico cosa rappresentava la pasta in passato;
    • non utilizzare condimenti attuali, anche se gli ingredienti esistevano nel periodo
    storico che si sta ricostruendo;
    • evitare formati moderni, il termine “maccherone o maccarone” indicava la
    pasta in generale e non l’odierno formato;
    • evitare di usare farine integrali e di altri cereali (farro, grano saraceno ecc....)
    per renderla più “popolare”; visto che era un cibo per nobili ed aristocratici
    veniva utilizzata farina di frumento.
     
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